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Progetto Idioma

by Progetto Idioma

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1.
Fuga. Fuga dalla realtà, dal passato, dal presente, dai sogni, dagli incubi. Corri a perdifiato, ti fermi un attimo, ti guardi indietro e sono ancora tutti lì. Li intravedi, ti braccano come sciacalli assetati di sangue. Il tuo sangue, che sgorga dalle ferite che ti sei procurato, e che si riaprono in continuazione, senza possibilità di cicatrizzarsi. È la sensazione più atroce, e viene a galla così di frequente che alle volte è insopportabile. Ovunque tu posi lo sguardo, altri mille occhi fissi su di te hanno già pronunciato la loro sentenza. E hai la certezza che non sarai assolto. Il silenzio, un silenzio forzato, innaturale, violento. La sofferenza è una ninnananna che ti atrofizza tutto. Un barlume di coscienza si risvegliava quando dei rumori assordanti iniziavano a bombardarti il cervello, e non capivi donde provenissero né cosa fossero di preciso. E nei rari momenti in cui ti lasciavano libero di rifiatare eri dominato dall'angoscia che tornassero e ti facessero di nuovo male, anzi, te ne facessero di più, e non sapevi quanto ancora saresti stato in grado di resistere. Ancora al buio. Dentro un tunnel così angusto che ti puoi muovere solo carponi. Manca l'aria, la luce, la tranquillità. Ma ti hanno spezzato con tutta la cattiveria di questo mondo. Hai le mani insensibili, nemmeno ti rendi conto se e quanto ti stai spostando, se vai nella direzione giusta o stai sprofondando nell'abisso. Con le tue movenze stentate cerchi di raggiungere l'uscita del tunnel. Quante volte te lo sei ripetuto, che l'avresti trovata quell'uscita? Ci dovevi arrivare, prima o poi, non era possibile vagare all'infinito nell'oscurità. Poi però pensavi che la luce non ti piaceva, e se per caso sospettavi d'essere vicino all'uscita, ecco la luce: una luce accecante, a perforarti gli occhi abituati al buio. E se quella era la luce in fondo al tunnel, allora preferivi rintanarti nelle tenebre, aspettando che i bagliori fossero svaniti. E restavi lì, giravi la testa e chiudevi gli occhi. Non era poi così necessario uscire dal tunnel.
2.
Tornato a casa avevo il tempo di far sbollire l'incazzatura, quindi far bollire l'acqua per la pasta, cenare e prepararmi a far ribollire un'altra volta l'incazzatura. Training autogeno, meditazione, psicofarmaci, eroina, ognuno ha le sue tattiche per affrontare le situazioni sgradevoli. Io utilizzai i miei rimedi universali: caffè, sigaretta, birra ed ero pronto a scendere nel sottosuolo del palazzo e partecipare alla riunione condominiale. Lo sgabuzzino era pieno, pareva mancassi soltanto io. Appena entrato mi trovai davanti il tavolo a cui stava seduto quel sudicio del Macchioni, la merda d'uomo per antonomasia, l'amministratore. Si chiamava Macchioni, ma per me era sempre e solo il Minchioni. Poco più di un metro e sessanta, la testa spelacchiata con due o tre peli riportati sopra a forza di spazzolare il nulla, le orecchie rattrappite su se stesse, la faccia cattiva, con una smorfia che sembrava un ghigno, anche se non rideva mai. Era sempre vestito da contadino arricchito, che tentava d'essere elegante però rimaneva grezzo nell'anima, con una giacca troppo stretta che gli gonfiava la trippa in disavanzo, sigarette a raffica e voce da eunuco con la bronchite. I suoi compari lo circondavano fedelmente. Seduto al lato destro del tavolo c'era il burundi, che a regola urlava sempre ma accanto al Minchioni gli sibilava all'orecchio i suoi utilissimi consigli per rompere i coglioni alla gente. All'altra estremità del tavolo, un essere ancora più spregevole, che in queste occasioni non dovrebbe avere diritto di cittadinanza. Il Salimbeni, che nonostante avesse venduto i suoi appartamenti durante le riunioni di condominio si rifaceva vivo, e come se non bastasse aveva pure voce in capitolo sugli argomenti all'ordine del giorno, imponeva le sue idee agli altri, partecipava alle votazioni. Di solito io e lui s'iniziava a litigare da subito e si smetteva soltanto dopo che la riunione era finita. Verso le dieci il Minchioni dette il via alla riunione. Contate le presenze, che non arrivavano al quorum, il Salimbeni se ne uscì con un papiro dove secondo lui c'erano le firme di molti inquilini che lo delegavano per rappresentarli alla riunione. Era il segnale che aspettavo per inaugurare le ostilità. "Oh, Salimbeni, ma ci stai pigliando per il culo?", saltai su, "queste firme son tutte false, dove saresti andato a raccattarle? E poi perché dovrebbero delegare te, che qui dentro c'entri come una merda di cane su una torta nuziale? Da' retta, Salimbeni, se proprio devi restare vedi di rompere meno le palle, perché è la volta che perdo per davvero la pazienza. Allora, ricapitolando, la riunione di stasera non è valida, non c'è il quorum e quindi non si può fare nulla. L'assemblea è sciolta, e se non lo dice l'amministratore, che mi sembra più rincoglionito di te, lo dico io. Tutti a casa!" "Stai attento", mi minacciò subito il Salimbeni, prima ancora che il Minchioni potesse intervenire, "a non parlare a vanvera perché io ti querelo, hai capito? Ci sono testimoni pronti a giurare che mi stai calunniando, non ti permettere più di dirmi certe cose, hai capito?" Andammo avanti un bel po' a infamarci a vicenda. Il Salimbeni era scatenato e mi si arrampicava sulla voce, lanciava insulti come gli venivano, mi puntava addosso l'indice, io gli rispondevo col medio. Gli altri ci lasciavano sfogare, il Minchioni non aveva alcuna fretta d'iniziare la riunione e non faceva nulla per calmarci, fumava e di tanto in tanto lui e il burundi si guardavano e facevano di sì col capo. Alla fine il Salimbeni esaurì il suo campionario; io suggellai le sue ultime parole con un bel rutto stereofonico, di quelli che fanno girare chi li sente, sia che sia vicino sia che sia lontano. Quelli lontani si girano perché impressionati dalla potenza del rutto, mentre quelli vicini girano il capo da un'altra parte per provare a scansare la ventata mefitica che gli arriva in faccia. Col chetarsi del Salimbeni l'inizio ufficiale della riunione slittò comunque. Toccò infatti al burundi fare le sue veci e attaccarmi. Da quello che riuscii a intendere dalla mistura di garrini sputacchiati per la foga, espressioni dialettali che mi sono note e qualche sporadica frase in italiano, il burundi mi accusava di una sequela infinita di gravi azioni che io avrei compiuto ai danni dell'intera collettività condominiale. Ero facilitato nella traduzione dal fatto che ogni tanto il Minchioni, sentendo dal burundi delle mie malefatte, le ripeteva con la faccia scandalizzata, che poi è quella maschera ghignante che non lo abbandona mai. Oltre all'amministratore che benediceva il burundi coi suoi cinematografici sobbalzi indignati, il Salimbeni gli dava manforte, inventandosi degli episodi in cui aveva subito delle prepotenze da me quando ancora abitava qui. Avrei potuto benissimo disertarle, le riunioni. Le pillole di burundi le dovevo mandar giù lo stesso, quasi tutti i giorni, e nonostante il casino che tiravo su ogni volta l'avevano sempre vinta loro. Però ormai le riunioni ce l'avevo nel DNA, m'ero specializzato nelle risse verbali e siccome i tre belzebù non li sopportavo avevo deciso di dargli battaglia perché capissero che se un giorno avessi fatto sul serio sarebbero stati cazzi loro.
3.
Donbaki 03:33
Aprì gli occhi, come ogni mattina, cinque minuti prima che la sveglia iniziasse a diffondere il suo caratteristico gracidio elettronico nella stanza. Sulla lavagna di plastica che teneva appesa ad un muro in cucina, ogni sera annotava una lista interminabile di propositi per il giorno seguente. La radio propinava la quotidiana accozzaglia di notizie, previsioni e musiche assortite. Carpì alcune parole del notiziario. "La tensione sembra essere salita alle stelle", diceva una voce. Uscì in strada. Recitando dentro di sé le varie cose annotate sulla lavagna la sera precedente, quasi non si avvide dello scenario che lo attendeva fuori. Un gran polverone tentava di mascherare la devastazione. Edifici rasi al suolo, altri sventrati, altri ancora scalfiti da una forza distruttrice che si era abbattuta sulla città. Iniziò a vagare in mezzo alle macerie. Mentre camminava, sollevando polvere ad ogni passo, sentiva emergere una sensazione indefinibile, che gli provocava spasmi d'ilarità, poi soffocati in un singulto con buone possibilità di divenire un pianto a dirotto. Cercava di guardarsi attorno ma subito abbassava lo sguardo a terra come un cane bastonato. Le frasi impresse sulla lavagna continuavano a ronzargli nelle orecchie. Non osava guardare l'orologio. In un angolo della sua mente perdurava la convinzione d'esser in ritardo, di star perdendo il treno della vita. Tutta la città sembrava un'unica, immensa periferia. Una periferia, però, abbandonata a se stessa, schiumante di vapori malsani, desolata e tetra. Continuava a ripetersi di essere in ritardo. Doveva affrettare il passo. Si sedette sul ciglio di un marciapiede, proprio di fronte a quello che era stato il suo posto di lavoro. Cosa ne fosse della sua bella, che abitava in un vecchio palazzo simile ai tanti che aveva visto, diroccati o anche peggio, in quelle ore, gli sembrava perfino un quesito secondario. Doveva tornare a casa, darsi una ripulita, riposarsi e segnare sulla lavagna le cose da fare il giorno seguente.
4.
L'aria, là sopra, era calda e soffocante, il rumore della macchina in funzione gli causava un sovrappiù di stordimento, però in certi casi era il rifugio ideale dove trincerarsi. Era una sorta di soffitta male in arnese. Sulle pareti erano affisse le tabelle con gli orari dei turni di operatori e cassiere, un promemoria ingiallito sulle norme di comportamento da tenere all'interno del cinema, un calendario scollacciato, di quelli che si trovavano affissi negli abitacoli dei tir, e la locandina di un film: "La vigilante dal grilletto facile". Altre locandine erano stipate in una cesta. I titoli erano tutto un programma. Quelli più divertenti ammiccavano a opere famose, parodiandole in versione pornografica. In fondo alla stanza, c'era la macchina di proiezione, che irradiava in sala i film. Dietro, sul muro, era ben visibile ogni scena. Se a quattordici anni m'avessero detto che a ventisette sarei stato pagato per vedere film porno a giornate intere, giuro che avrei smesso di farmi le seghe in attesa di tempi migliori, si diceva Anthony prima di riprendere il suo ruolo di factotum in sala. La beatitudine impressa sui volti dei due attori, uomo e donna, il cui amplesso aveva costituito la scena finale del film di quel giorno, era di gran lunga più rassicurante delle avances fattegli da Don Carlos. Farsi cavalcare da un vecchiaccio bigotto che lo tirava per i capelli era un'immagine raccapricciante. Ridiscese a malincuore nella squallida e puzzolente hall del cinema. I tendaggi erano un inno alla polvere, la laminatura in oro delle colonnine aveva lasciato il posto ad un classico color posata, e il gabbiotto della cassa faceva rimpiangere le celle d'isolamento di Guantanamo in cui marcivano i talebani. Per non parlare della sala: le poltroncine erano finite, ciondolanti, strappate, scucite, macchiate un po' ovunque, il pavimento sarebbe stato adatto per una stalla, e l'impianto audio e video non era certo all'avanguardia. Ma era un dettaglio quasi irrilevante. Don Carlos proseguì a ragionare di filosofia spicciola e problemi religiosi ancora per un bel po', ma il proiezionista aveva smesso d'ascoltarlo. Ripensava al film in programmazione quel giorno. Un all sex americano degli anni Ottanta, doppiato da far pena, tanto da rendere esilaranti i dialoghi tra i personaggi. Nella scena madre, il protagonista maschile si ritrovava chissà come a letto assieme alla donna dei suoi sogni. E anche la loro prestazione era da sogno, impeccabile, lunga ed appagante in ogni posizione possibile ed immaginabile. Nei film porno emergeva preponderante l'aspetto ludico del sesso. Non esistevano complicazioni, sensi di colpa, morbosità. Gli attori non aspettavano altro che di sfilarsi i vestiti e fare l'amore, rifiatare e quindi da capo, cambiando partner o aggregandosi a un'orgia. Era un'immagine in un certo senso poetica, celestiale, al punto da rendere il tutto così irreale, quasi asessuato. Nella vita reale, invece, c'erano rapporti poco soddisfacenti, non del tutto completi, gravati dalla paura delle malattie. E ancora, prestazioni a pagamento, dei generi più vari, finanche virtuali, e poi gli stupri, e il mondo fiabesco dei film porno si sgretolava, gettando un'ombra oscura e angosciosa sul sesso e su ciò che gli girava intorno.
5.
Sapevamo di trovare terreno fertile quaggiù, così abbiamo deciso di partire proprio da qui. E a noi non piace perder tempo. Quindi ci siamo riorganizzati all'istante, e forse saprete già che questo luogo è destinato ad ospitare la sede della Chiesa delle Sette Sorelle! Qua dentro spariranno disuguaglianze ed ingiustizie, non esisteranno soprusi e tutti vivranno in perfetta concordia ed armonia. Abbiamo già raccolto parecchie adesioni, e siamo sicuri che presto diventeremo una forza dominante, che sulla spinta dell'amore universale che andiamo predicando si espanderà a macchia d'olio e cancellerà i poteri iniqui esercitati con l'inganno dagli individui e dalle istituzioni che ci reprimono nella vita di tutti i giorni. Per questo vi abbiamo mandato a chiamare, perché sappiamo che questi ideali sono sempre stati dentro di voi, e nonostante le incomprensioni che ci sono state in passato, noi remiamo dalla stessa parte e crediamo nelle stesse cose. Ora andate pure, se non siete convinti nessuno vi costringerà a tornare qui, però ricordate che soggetti come voi saranno sempre i benvenuti nella Chiesa delle Sette Sorelle!
6.
Scottafava aveva una dozzina d'anni più di me, e da ragazzo era stato uno dei pionieri della diffusione di droghe pesanti dalle nostre parti. Consumo e spaccio, un tossico doc insomma, che barcollava per le strade con lo sguardo assente e si faceva regolari soggiorni nelle patrie galere. Di recente s'era rimesso in sesto. Per la maggior parte del tempo se ne stava appollaiato su uno sgabello dietro al registratore di cassa a fumare, in barba ai divieti. Anni di buchi nelle vene non erano scivolati via come l'acqua della grondaia. Rincalcato nella sua postazione, alto e secchissimo, Scottafava sembrava un avvoltoio. I capelli ritti in testa, un po' ingrigiti, uno strato di barba sfatta di qualche giorno e la bocca piegata in un ghigno che metteva in mostra tutti i denti che aveva perso. Nella sala giochi di Scottafava c'era una decina di postazioni, cinque lungo ogni parete, tranne quella dove stava lui. I giochi erano gli stessi da anni, i giocatori, spesso, pure. Mi buttai sul picchiaduro. "Street Fighter 2". Inserii la moneta e selezionai il lottatore. Per un torneo in scioltezza mi affidai al giapponese Ryu. Sbaragliai senza sforzo chiunque mi si parasse sulla strada: il coriaceo marine Guile, il gommoso santone indiano Dhalsim, che allungava invano verso di me gambe e braccia, e quel troglodita di Blanka, che liquidai con irrisoria semplicità. Mi accingevo quindi a sfidare i quattro cattivi finali, quando arrivarono Pigiamino e Muriatico. La presenza del secondo era avvertibile anche solo a livello olfattivo. Puzzava in una maniera indescrivibile, come se si portasse appresso una corazza di ferraglia arrugginita. Pigiamino si diceva spacciasse nei paesi vicini per conto di Scottafava. In effetti pareva suo figlio, tutto rinsecchito, col sorrisino ebete, i denti gialli e l'alito da fumatore incallito. Ancor prima di salutarmi, Pigiamino infilò una moneta nella fessura appena sotto il mio joystick: era il segnale che intendeva ad ogni costo farmi perdere contro Sagat. Si piazzò alla mia sinistra, in zona joystick, mentre Muriatico stava in piedi dall'altra parte, muto perché per tramortirmi bastava qualche boccata del suo alito pestilenziale. Schivai l'attacco di Sagat con un saltello all'indietro e lo abbrustolii con una bella palla infuocata. Pigiamino mi mise il braccio intorno alla vita e ne approfittò subito per darmi un pizzicotto, che contribuì non poco alla riscossa di Sagat. Dovevo chiudere in fretta, prima che fosse troppo tardi. – Shoryuken! –, gridai, facendo stramazzare il bestione tailandese col pugno del drago. Anche Pigiamino sobbalzò, e d'istinto mi levò il braccio di dosso. – Grande Andre, gliel'hai fatta vedere a quello sbruffone pelato –, si complimentò Muriatico, somministrandomi l'ennesima esalazione letale proveniente dalla sua bocca. – Dici di Sagat o di Pigiamino? –, gli chiesi io. I miei due avversari, quello virtuale e quello in carne (poca) e ossa, erano entrambi messi maluccio quanto a capelli.
7.
Augentaker 03:29
C'era chi avrebbe barattato il proprio male di vivere con un male incurabile. Io più che altro mi sarei scrollato volentieri di dosso gli strascichi d'influenza con cui combattevo da mesi. Di liberarmi del resto ci contavo poco. La mia stessa esistenza mi appariva un'assurdità. Ci pensavo spesso, e ogni volta era uno strappo dentro di me, la dolorosa consapevolezza di non poter riavere nulla indietro. Non mi faceva bene aggrapparmi di continuo al passato. La mia bussola interiore non funzionava più. In balia della tempesta, avevo preferito andarmi a nascondere in fondo alla stiva, non comprendendo che stavo colando a picco. D'accordo, ero io quello sbagliato. Però, prenderne atto non rendeva meno straziante quella ferita, quella pagina della mia storia che continuava ad inseguirmi. Io con le mie lacerazioni interiori ci facevo i conti giorno dopo giorno. Intorno a me vedevo periferia, cemento e desolazione, buio e solitudine. Ma la periferia era soprattutto dentro di me. Una periferia esistenziale che mi costringeva a rintanarmi nel cono d'ombra in cui fermentava la crisi che mi avrebbe travolto. Ero un uomo alla deriva, in fuga da me stesso. Il mio percorso aveva deviato bruscamente, stabilizzandosi sul lato oscuro in un viaggio di sola andata verso il nulla… Avevo visto l'orrore coi miei occhi, e continuavo a vederlo. Ero assalito da pensieri agghiaccianti, che non mi davano pace. Più che vivere, avevo strisciato negli angoli più bui, trascinandovi penosamente la mia carcassa. E più m'illudevo di tenere sottocontrollo il male, più questo mi scavava dentro, lasciandomi privo di difese a fronteggiare l'uragano…
8.
L'avvoltoio 02:24
C'era un avvoltoio che dava colpi di becco contro i miei piedi. Aveva già rotto stivali e calze, ora già dava colpi di becco proprio contro i piedi. Continuava a colpire, volò poi inquieto più volte intorno a me e si rimise all'opera. Passò un signore, guardò per un momento e poi chiese perché sopportassi quell'avvoltoio. "Sono inerme", dissi, "è arrivato e si è messo a darmi colpi di becco, naturalmente volevo cacciarlo via, ho perfino cercato di soffocarlo, ma una simile bestia ha grandi energie, stava già per saltarmi in faccia, allora ho preferito sacrificare i piedi. Ora sono già quasi dilaniati." "Perché lasciarsi tormentare così", disse il signore, "uno sparo e l'avvoltoio è liquidato." "È così?", chiesi, "e vorrebbe farlo lei?" "Volentieri", disse il signore, "devo solo andare a casa e prendere il fucile. Ce la fa ad aspettare ancora mezz'ora?" "Non lo so", dissi, e restai per un momento irrigidito per il dolore, poi dissi: "La prego, ci provi in ogni caso." "Bene", disse il signore, "mi affretterò." L'avvoltoio durante la conversazione aveva ascoltato tranquillo e il suo sguardo vagava tra me e il signore. Mi accorsi che aveva capito tutto, si alzò in volo, indietreggiò per prendere lo slancio sufficiente e, come un lanciatore di giavellotto, lanciò il becco nella mia bocca, a fondo, dentro di me. Cadendo all'indietro, liberato, sentii che nel mio sangue che riempiva tutte le mie cavità, che superava ogni argine, quello irrimediabilmente affogava.
9.
Werther? 06:31
Tra un po' devo andare al lavoro. Non è mica facile mantenersi, col costo della vita di questi tempi. Oltre a fare il commesso, mi toccano pure gli straordinari notturni in compagnia della peggio gente, e per coltivare le mie passioni mi rimane pochissimo tempo. Vitaccia, quella dell'artista, arrabattarsi tutto il giorno e mai una soddisfazione alle tue aspirazioni. Oh, per carità, si sa che i più geniali artisti maledetti muoiono giovani, quindi se tanto mi dà tanto io potrò campare fino a novant'anni ed organizzarmi un buon fondo pensione, visto che scrivendo poesie ho l'ottima prospettiva di non vedere mai il becco d'un quattrino. Forse sono io che mi faccio troppi problemi a relazionarmi con le persone. Diciamo che non sono un gran frequentatore del genere umano, anzi, sono un corpo estraneo persino a me stesso. Mi dicono che la cosa migliore quando si sta male è fare lo scaricabarile, prendersela con qualcun altro. È colpa della società, lo giuro davanti alla corte, mettetelo a verbale. Il problema è che pure la società fa lo scaricabarile, e sostiene che la colpa sia mia. Come ci sono finito a fare le cose che faccio? Non lo so, potrei provare a partire da lontano, da bambino, da quando giocavo nel cortile sottocasa con la mia amica del cuore, e un giorno lei rimase schiacciata dal cancello automatico, e morì. Davanti ai miei occhi. La porta magica che si apriva e si chiudeva da sola, quella volta non si riaprì. Credo che quel giorno qualcosa in me si sia rotto. O forse era solo un fatto slegato dal resto, che ho provato a collegare più tardi per cercare di giustificarmi di fronte a me stesso. E il compagno Giunco? Quell'omone così rassicurante, irsuto, rubicondo. Era il proprietario della gelateria più famosa del posto, per noi bambini destinati a passare qualche settimana in quel paesino di mare era una specie di luogo sacro. Il gelato dopo cena era un rito che non si poteva non compiere. E poi il compagno Giunco si divertiva a strabiliarci con dei numeri d'alta scuola. Prendeva una palla di gelato con la paletta e la scaraventava nella bocca spalancata di un bambino in piedi a un paio di metri di distanza. Non sbagliava mai. Adesso in quell'immagine potrei leggerci un chiaro messaggio, ma allora non capivo e vedevo le due cose separatamente. Per un po' di gelato gratis dovevo prima spararmi in bocca qualcos'altro, roba di proprietà del compagno Giunco. Nelle prime ore del pomeriggio non veniva mai troppa gente, bastava mettere sulla porta il cartello Torno subito e andare pochi minuti nel retrobottega, lui mi diceva che ero bravo, che avevo imparato in fretta come si faceva, e mi regalava il gelato. Per diversi anni è stato così. Poi immagino sia toccato a qualche altro suo piccolo cliente. Come fai a vivere bene la tua condizione in un ambiente così, non ti puoi sfogare né confidare con nessuno. Quando pensi d'aver trovato qualcuno in sintonia con te, spesso soffri le peggiori delusioni. Un'estate andai in vacanza con un mio amico, avevamo prenotato una camera d'albergo con due letti singoli ma per errore ce ne dettero uno matrimoniale. Per lui non c'era problema, per me nemmeno, tant'è che non stavo nella pelle e rimasi parecchio tempo a rigirarmi nel letto mentre lui dormiva già da parecchio. Dopo un po' lui si svegliò, si accorse che aveva qualcosa tra le gambe e si girò di scatto verso di me. Fece un salto pazzesco fuori dal letto e si mise a urlare come un ossesso. Mi offese con tutti gli epiteti che conosceva, e alla fine mi consigliò di andare a fare le marchette. Io, siccome credevo ancora nella sincerità della sua amicizia, gli ho dato retta, e vi assicuro che è un sistema efficace per combattere il caro–affitti. Uno che si meriterebbe ben di peggio è il Purga, uno dei pittori ambulanti storici del centro. Era specializzato nei ritratti dei bambini, e queste sue preferenze si ripercuotevano anche a livello sessuale. Da piccolo io ed alcuni miei amici bazzicavamo dalle sue parti e lo prendevamo in giro perché era un tipo stranissimo. Era su per giù come adesso, l'enorme coda di capelli grigi e il pizzetto luciferino lo rendevano un personaggio sinistro. All'epoca lo vedevamo come una specie di uomo nero. E lo era davvero, visto che tre di noi, me compreso, ebbero incontri ravvicinati col suo pennello, non so se mi spiego. Maschi, femmine, non faceva distinzioni, il Purga. Bastava fossero ampiamente minorenni. Con quell'aria abbrutita, con le lievi alzate di spalle che faceva quando si sentiva addosso degli sguardi insolenti di dileggio, il Purga mascherava le più immonde perversioni e continuava imperterrito a dipingere. Ogni tanto, durante il turno di notte, viene da me un tizio che gli assomiglia vagamente. Mentre lo facciamo mi rivedo bambino, nudo nella soffitta buia dove abitava il Purga, che prima mi paragonava a qualche quadro famoso e poi passava all'azione senza ulteriori preamboli, sostenendo che la sua arte era astratta e perciò in un certo senso quello che stavamo facendo non era reale. Che schifo. Questa società va scardinata dalle fondamenta, per debellare il male, e se proprio non è possibile, noi, nel nostro piccolo, dobbiamo darci da fare per uscire dalla massa e darle degli scossoni tremendi, da magnitudo nove. Facciamoli tremare, questi maiali!

about

Realizzato completamente in analogico.
Registrato e mixato al BunkerHaus di Firenze nell'estate 2011 da Riccardo Romoli con la collaborazione di Francesco Fusi.
Masterizzato da Gabriele Cele Caldini al No Gravity Studio nell'ottobre 2011.

Progetto Idioma:
Ammiraglio MacBufferson - chitarre
Cancelliere von Malox - basso, kaossilator, voce
Father Johnny Picozzi - chitarre, kaossilator, percussioni
Pekyntosh Soluscions (crea e risolve problemi) - batteria
Santamaria della Bibbita - voce

con la partecipazione straordinaria di Franco Baggiani - trombe in "Riunione di condominio"

credits

released November 2, 2011

Musiche di Progetto Idioma
Testi di Progetto Idioma, tranne "L'avvoltoio", Franz Kafka

license

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about

Progetto Idioma Firenze, Italy

Idioma Project, including musicians with over a decade of experience, combines the dark, noisy, claustrophobic, groovy, and experimental music created by acts like The Velvet Underground, Sonic Youth, Joy Division, Fugazi, Pink Floyd, At The Drive-In, filled up with lyrics drenched in anguish, desperation, failure, and black humour, readapted from the works of the greatest living novelist. ... more

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